Filippo Leonardi, autore della mostra fotograficaKosovo 2006“, racconta l’idea e l’esperienza vissuta che sta alla base di questo progetto. Filippo, architetto, fotografo e membro dell’associazione Bambini del Mondo, si è recato in quelle terre per portare il proprio aiuto al centro di accoglienza per bambini orfani di Klina. Dopo quel periodo trascorso tra miseria e solidarietà ha realizzato una mostra, il cui ricavato sarà devoluto a questa causa.

In queste righe ha cercato di raccontare un piccolo capitolo della storia del Kosovo.

“Non vorrei scrivere, perché sono un fotografo, non uno scrittore. Qui vi racconto ciò che ho visto od ho creduto di vedere. Forse le parole servono a mostrare quelle foto che non sono riuscito a fare. Servono a raccontare una storia, perché noi fotografi -mi disse Larry Towell dell’agenzia Magnum Photo a New York- noi fotografi, siamo “story teller”, letteralmente “racconta storie”. Le parole a volte servono a completare la storia.

Questa mia storia del Kosovo è semplice, forse un po’ lunga. Da anni collaboro con “Bambini del Mondo”. Nel 2000 ero in Kosovo come architetto a seguito di un progetto di ricostruzione. Catapultato in un nuovo mondo, fatto di ONU, NATO, UNHCR, ONG, Cooperazione Italiana, esercito, business umanitario, fiumi di generosità, fiumi di soldi, fiumi di sprechi, emergenza, dolore, miseria, rabbia, paradossi e media, solo per citare i principali attori di quello che io chiamo circo Kosovo. Circo per diversi motivi: uno fra questi è quello che una delle prime cose arrivate in Kosovo nel dopoguerra, sono le antenne paraboliche. Con queste il Kosovo vuole imparare dal resto del mondo a vivere, e così copiano.

La foto più espressiva, che non sono riuscito a scattare, è quella delle ragazzine con i tacchi alti, pantaloncini a vita bassa, micro-magliette, che passeggiano ancheggiando in mezzo alle rovinose buche, agli edifici sventrati, ai blindati con il colpo in canna. 
Alcune cose sono cambiate a ben guardare, ma non troppo. Se uno chiude gli occhi, e invece ascolta, gli sembra tutto uguale a 7 anni fa: il coro dei generatori a gasolio che parte appena manca la corrente, e canta spesso, i kalashnikov che tuonano, questa volta di gioia matrimoniale, si spera, la puzza di sporco secolare, i bimbi che piangono e rimpiangono, tanto chi gli ascolta, la polvere che respiri ovunque, i blindati che passano. Quanti blindati. Ma sanno che è finita la guerra? Ha già, gli attentati. Che strano 1 militare ogni 10 persone e ancora attentati? Ha già, i monasteri serbi, li hanno bruciati. Ma non erano presidiati dall’esercito 24 ore su 24? Viene da pensare che il circo Kosovo cosi com’è interessa a qualcuno. Tanto per fare un esempio del business umanitario, il solo esercito italiano utilizza 6000 litri di gasolio all’ora per la missione. Il Kosovo è una piccola regione di undici mila kilometri quadrati con due milioni di abitanti. Io credo che tutti i soldi spesi lì dal mondo intero gli avrebbero lastricato le strade d’oro. Ma io non sono uno storico, né un politico né un militare e sicuramente loro hanno una visione generale più ampia di questa mia semplificazione.

Ad Agosto di quest’anno sono tornato in Kosovo per visitare gli amici della Caritas Umbria e per raccogliere le fotografie necessarie ad un progetto culturale dell’associazione BdM sui monasteri del Kosovo. Mi piace molto quello che fanno gli Umbri in Kosovo perché sono una delle poche associazioni rimaste dopo la fuga dei media. Purtroppo il business umanitario è strettamente legato a quello mediatico e appena se ne vanno le TV, via tutti. Sono stati giorni molto intensi nei quali ho trascorso intere giornate di una calda estate all’interno delle fredde mura dei monasteri, in un profondo e religioso silenzio. Purtroppo dovevo correre perché le foto che volevo fare erano tante, troppe e il tempo poco. Anche gli ostacoli non erano pochi. I Monasteri, geograficamente distanti l’uno dall’altro, sono tutti “blindati”: l’esercito all’esterno e i monaci ortodossi all’interno, attenti custodi, a volte anche troppo, del loro glorioso passato. Confesso che i giorni passati a Decani sono stati emozionanti, vuoi per l’ottima accoglienza, vuoi perché ho visto da vicino la loro vita, le loro funzioni religiose, la loro disarmante semplicità come anche la voglia di guardare al futuro. I monaci pregano spesso, coltivano la terra, producono dell’ottimo vino, formaggio, candele, splendidi mobili e icone che costruiscono su ordinazione per molte chiese ortodosse dei Balcani.
 La visita al Patriarcato di Pec-Peya è stata più breve. Qui, al contrario di Decani, sono le monache ad occuparsi del Monastero, come succede anche a Gracanica, situato vicino la capitale Pristina.
Purtroppo il tempo scarseggiava e c’era un’altra storia da raccontare, quella dell’altra anima del Kosovo: la gente. Ma come raccontare questa storia? Credo che il modo migliore sia quello di seguire i miei amici della Caritas che portano gli aiuti alle famiglie. Entro con loro nelle case, sento le storie. Vedo tristezza, orgoglio, rassegnazione, ma anche sorrisi quelli che avevamo noi italiani nel dopoguerra felici di poco o niente e che ora ci siamo persi perché ora abbiamo molto, a volte troppo e quindi abbiamo perso la voglia di sorridere. Le didascalie delle Famiglie le ho chieste a Luca, mio compagno di viaggio della Caritas Umbria. Dal 1999 ad Oggi, nei momenti liberi, Luca si occupa di portare aiuti dalle famiglie Umbre a queste del Kosovo. Spero di avervi raccontato una storia.
Filippo Leonardi”